lunedì 5 aprile 2010

sabato 3 aprile 2010: Il primo giorno di sopralluogo





La partenza
Partiamo in ritardo (ore 11) perché la sveglia non suona. Deve essere amica della videocamera. Il traffico, piuttosto che quello di una giornata di festa, sembra quello del mercoledì mattina, il che è deprimente. Dopo due ore e una pausa pipì-carburanti-pranzo all’autogrill di Monte Baldo, usciamo dall’A4 e ci inoltriamo nel cuore della Lessinia Orientale.

L’ingresso in Lessinia
L’uscita Soave è degna del nome che porta: chilometri quadrati di campi coltivati a filari di vite che accarezzano lo sguardo. Più in alto, sul versante di solatìo, ulivi e meli fioriti. Ovunque si guardi, non c’è un centimetro di campagna incolta: l’operosità veneta trasuda da queste terre ricche e morbide.
Nugoli di ciclisti ci accompagnano mentre risaliamo la provinciale 10 fino nel cuore della Lessinia, altopiano costituito da una serie di piccole valli che scendono a ventaglio da nord a sud, perpendicolari alla Pianura padana. Questa che stiamo percorrendo tanto “soavemente” è una delle più orientali, la Val d’Illasi.

L’arrivo a Giazza
Giazza, in cimbro Ljetzan, è un centro abitato di un centinaio di anime a 750 metri di altitudine, tra la fine della val d’Illasi e l’inizio del sentiero europeo di escursionismo n.5 che unisce la Bretagna al Mare Adriatico. Sulla vallata, stretta e poco soleggiata, torreggia il gruppo del Carega, detto anche delle Piccole Dolomiti, tutte cime al di sopra dei duemila metri quindi piccole un corno.
Giazza ha una chiesa bianca, un nugolo di case chiare tutt’intorno, un torrente rumoroso e pochi gradi sopra lo zero, per non dire nessuno. Ci sono due strade: quella di sotto va verso il museo etnografico, quella di sopra al nostro albergo. Decidiamo di scendere e andare al museo per ambientarci un po’.

Il bar Ljetzan
Il Centro di Cultura e Lingua Cimbra, il museo etnografico e Radio Cimbri sono situati nello stesso edificio sulla piazza principale del paese. Ma è chiuso. Controlliamo l’orologio, poi ci rendiamo conto che è il sabato di pasqua e quindi il custode se la sarà presa comoda. Decidiamo di chiedere informazioni e un grappino al bar Ljetzan, proprio lì di fronte.
Nel bar c’è un bel tepore, ci sono quattro avventori anziani che scappano non appena sentono la parola “cimbro” e un gestore affabile che ci raccomanda pazienza. Ci passa poi, quasi sottobanco, un’informazione preziosa: suo padre è l’ultimo discendente di una famiglia di carbonai e ogni anno, a maggio, produce il carbon fossile secondo l’antica tradizione cimbra. A mò di invito ci consegna un depliant sul quale è illustrato (in cimbro) l’intero processo da In koular hakat iz holtz in balt (il carbonaio taglia la legna nel bosco) fino a Iz koul ist gamasht (Il carbone è fatto). Se il 9 maggio non avete nulla da fare, potete accompagnarci in Lessinia.

Il Museo
Nel Museo, ora aperto, fa più freddo di fuori, e sì che fuori fa freddino. Ci apre Roberto, dell’associazione culturale Curatorium Cimbricum Veronense, il quale risponde con pazienza alle nostre domande ancora un po’ vaghe. Ci dà dei consigli, dei nomi, e alcune videocassette che purtroppo non riusciremo a vedere. Grazie a lui otteniamo i contatti giusti per approfondire la nostra inchiesta. Mentre io chiacchiero, Pablo, al piano di sotto, scatta foto e si documenta nel museo. Materiale che ci potrà essere utile in fase di post-produzione.

L’albergo Belvedere
A Giazza di sopra, in una splendida posizione panoramica sulla stretta Val d’Illasi, sta il nostro hotel. Gabriello, il gestore, ci accoglie con gentilezza e, dopo averci dato la camera con la vista più bella (ma siamo praticamente gli unici clienti, quindi...) ci indica a un tavolo il signor Cesare, parlande cimbro doc. Ci avviciniamo, e il signor Cesare giustamente ci fa notare che è difficile parlare da solo, quindi se vogliamo sentirlo parlare cimbro, dobbiamo aspettare che arrivi qualcuno. Ma non abbiamo tempo, purtroppo, e lo salutiamo prendendo il suo numero di telefono. Ci rivedremo questa primavera per un’interessante conversazione. In cimbro, ovviamente.

L’agriturismo del campione
L’agriturismo Dal Bosco “Eibaner” si trova a un chilometro scarso oltre Giazza. Quando lo raggiungiamo sta piovendo e, a parte noi, fuori ci sono soltanto un ragazzo che sta spingendo un carriola di ciocchi di legna e un uomo magro e forte: il signor Lino. Questi si illumina quando scopre che veniamo a parlare di Cimbri e ci fa entrare.
Siamo da lui perché Gabriello ci ha raccontato che nel suo agriturismo ogni anno si rappresentano gli antichi mestieri della tradizione cimbra in una festa agli inizi di settembre, che coincide con la discesa dagli alpeggi delle mandrie e delle greggi. Ma il signor Lino, oltre che un solerte organizzatore di riunioni enogastronomiche e culturali, è un parlante di cimbro amico di cimbri e membro fondatore dell’associazione Veri Cimbri di Giazza. E cominciano a essere due le associazioni, chissà se si coordinano e come.
La cosa interessante è che hanno contattato, tramite il presidente della comunità montana, anche la direttrice didattica della scuola per proporle di inserire nel curriculo un’ora di lingua cimbra. Il viso del signor Lino mentre difende il diritto a che questa lingua, per causa della quale quarant’anni prima si veniva sbeffeggiati o picchiati, venga ora preservata, è un misto di tenerezza e rabbia.
Ce ne andiamo con un invito alla manifestazione di settembre, e con il ricordo delle maratone che il giovane Lino Dal Bosco correva per le Alpi. I ritagli ingialliti sulle pareti mostrano un campione imbattibile più che per forza, per resistenza e più che per tecnica, per tenacia.

Risorse fotografiche
Torniamo in albergo soltanto per indossare gli scarponi da trekking e un pile sotto la giacca a vento. Alle 6 di sera Pablo ha infatti deciso che si va a fare un giro e a prendere “risorse” utili. Il fatto di andare a piedi ci permette di scoprire la Giazza di mezzo, un paesino di case sprangate in attesa di essere nuovamente occupate. Costeggiando il lato sinistro della chiesa, proseguiamo verso il fondovalle dove un rumoroso torrente scorre limpido e freddo. Attraversiamo il ponte e risaliamo il crinale della montagna di fronte, il che ci permette di scattare alcune belle foto del paese e di effettuare alcune riprese.
Disgraziatamente, proprio mentre sono intenta a camminare osservando genziane e ranuncoli, noto qualcosa di strano allo scarpone destro: la suola mi si sta staccando. Quando cammino l’effetto è quello delle scarpe dei vagabondi: a me non escono le dita dei piedi ma quasi. Così, contravvenendo il proverbio, sono costretta a fare “il passo più lungo della gamba” e a trascinare il piede destro in maniera così innaturale che, se ci fosse stato qualcuno, avrebbe pensato che avessi una gamba più corta dell’altra.
Ripassiamo nuovamente di fronte all’agriturismo Dal Bosco e risaliamo lungo la strada asfaltata, all’altro lato della valle. Mentre ci rechiamo all’albergo scattando molte foto, Pablo mi spiega una nuova idea di sceneggiatura per il documentario, ma io sono così stanca e infreddolita, e per di più un po’ alterata dal contrattempo con lo scarpone, che non gli presto più di tanto attenzione. Il teporino dell’albergo è un vero sollievo. E lo è anche rimettermi le scarpe da tennis.

L’albergo Belvedere 2
La cena è squisita: gnocchi conditi con formaggio di malga e, per secondo, una splendida trota salmonata cotta sul carbone. La signora ha fatto anche la torta, una variante esoterica degli after eight, e il padrone di casa ha continuato a mescere vino e vinello, fatto sta che in poco tempo sono un po’ brilla e mi metto a commentare a voce forse un po’ troppo alta le performaces canore dei bambini che partecipano a un concorso di canto, suscitando la disapprovazione dell’unica altra coppia presente, visibilmente emozionata dalle ugole d’oro dei nanerottoli.
Dopo cena facciamo il punto della situazione, lavorando nel gelo più totale. L’albergo è vuoto, e il nostro calorifero non riesce a supplire la mancanza di vicini. Così, vestiti di tutto punto, incluso cappello di pile stile papalina, ci mettiamo a lavorare al computer, rivedendo filmati e fotografie e scrivendo la sceneggiatura sotto le coperte. Ma devo ammettere che la stanchezza, il calduccio e la digestione hanno favorito un sonno profondo.

Nessun commento:

Posta un commento